Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 24/04/2024 17:09:49

L’attacco lanciato dall’Iran a Israele lo scorso 13 aprile e la successiva risposta israeliana hanno alimentato sulla stampa araba abbondanti riflessioni sulle strategie di deterrenza adottate dai due Paesi, la capacità o meno degli Stati Uniti di intervenire per prevenire un’escalation e, generalmente, sul destino della regione. Su Asasmedia (quotidiano libanese filo-emiratino) l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid scrive che lo scontro tra i due nemici storici mette in luce «l’incapacità dell’America di governare gli sviluppi» nell’arena mediorientale. Gli Stati Uniti continuano a giocare un ruolo di mediatori «per cause di forza maggiore, ma senza averne alcun diritto o merito», prosegue al-Sayyid domandandosi che cosa succederebbe se i negoziati dovessero fallire «come è accaduto in Afghanistan e in Iraq al termine di due guerre sanguinose». 

 

Washington ha deluso tutti, continua l’editoriale, compreso il Qatar, «con cui i rapporti si sono incrinati perché […] nei negoziati per la tregua l’amministrazione statunitense presenta soltanto il punto di vista israeliano». La conclusione è che «l’America è un amico inaffidabile» il cui atteggiamento ha finito per innescare il circolo vizioso dell’inazione: «Washinton dovrebbe farsi avanti e guidare, ma non ha più il potere di cambiare la situazione. Gli arabi, che dovrebbero intervenire, aspettano nuove idee americane per raggiungere la tregua e realizzare la soluzione dei due Stati… aspetta e spera!»   

 

La stampa emiratina osserva con un certo distacco «le scaramucce tra Iran e Israele», come le ha definite Mohammed al-Safawi su al-‘Ayn al-Ikhbariyyah, e in generale si limita a qualche commento celebrativo degli sforzi diplomatici compiuti dagli Emirati per «seminare la pace negli epicentri dei conflitti». Emirati animati principalmente da «un senso umanitario con l’obbiettivo di sollevare gli altri dalle sofferenze», scrive il giornalista kuwaitiano Issa al-Amiri su al-Ittihad.

 

Interessante anche la vignetta pubblicata lunedì sullo stesso quotidiano, che mette a tema le conseguenze del conflitto in Medio Oriente dando un’idea delle priorità di Abu Dhabi: il pino rappresenta l’economia, come recita la scritta sul vaso in cui è interrato, mentre la palla (che ricorda una bomba) appesa al ramo rappresenta la «tensione regionale». Questa rischia di trascinare nel burrone un’economia che si trova già sull’orlo del precipizio.  

Al-‘Arab ha pubblicato un editoriale firmato dallo scrittore libanese Mustafa Amin, intitolato “Il Diluvio del Sangue: dopo sei mesi di conflitto”, di fatto un’invettiva contro l’islam politico. La domanda se oggi i palestinesi siano «martiri o vittime della guerra» apre una riflessione sull’ideologia islamista. Secondo l’autore i palestinesi sono vittime di guerra, perché l’unico martire oggi è «l’esercito, che però è martire della nazione, non di un’ideologia». Le disquisizioni islamiste attorno all’essere martire o vittima riflettono invece un problema più profondo, la commistione tra politica e religione nei loro discorsi. Il discorso di un politico, scrive l’editorialista, «deve essere principalmente nazionalista arabo, o quanto meno sovranista, nel limiti della sovranità di ciascuno Stato, e non può essere ideologico, sulla base di concetti e visioni che hanno fatto il loro tempo». Lo stesso Iran ha attaccato Israele per difendere la propria sovranità, non i palestinesi (e quindi un’ideologia). Lo stato moderno, prosegue l’articolo, non può essere governato da un’ideologia islamista, l’unica soluzione per ottenere pace e giustizia è ricorrere alle «teorie politiche del mondo moderno». Secondo Amin c’è una differenza sostanziale tra «un musulmano che entra in politica e governa sulla base di ciò che la sua umanità gli ha rivelato, e l’islam che arriva in politica e governa sulla base della rivelazione. Questo non è possibile, conclude l’editorialista, perché la civiltà di oggi non è la civiltà di ieri».

 

Di tutt’altro tenore sono gli editoriali pubblicati su al-‘Arabi al-Jadid (quotidiano londinese finanziato dal Qatar). Il romanziere giordano Mahmud al-Rimawi riflette sulla coesione perduta del mondo arabo, che da dieci anni a questa parte «anziché formulare un progetto arabo per la sicurezza collettiva e lo sviluppo globale, e una visione comune delle relazioni con le potenze regionali sulla base degli interessi e dei diritti arabi […], si è diviso tra chi vede in Tel Aviv un partner o addirittura un alleato per contrastare le ambizioni iraniane, e chi crede che l’Iran sia un alleato affidabile per contrastare l’espansione israeliana». Gli arabi hanno lasciato che il Levante arabo diventasse un terreno di scontro tra Iran e Israele, uno «spettatore anziché attore». Ma gli arabi «dovrebbero essere alleati di sé stessi», conclude l’editorialista.

 

Su al-Quds al-Arabi, il giornalista algerino Tawfiq Rabahi accusa l’Iran di essere l’artefice indiretto delle fortune di Israele, perché attaccandolo ha contribuito a distogliere l’attenzione internazionale «dalla sofferenza degli abitanti di Gaza, scomparsa dalle prime pagine dei giornali» e ha aiutato Netanyahu a «ritrovare la salute politica perduta». «La battaglia misteriosa», spiega l’editorialista, ha aiutato il Paese a ritrovare una coesione interna – «ha eliminato le divergenze all’interno del governo israeliano e unito il consiglio di guerra, che era sull’orlo della disintegrazione» – e ha «eliminato dai politici occidentali e arabi e dai media di tutti gli orientamenti il senso di colpa, di vergogna e d’impotenza per ciò che sta accadendo a Gaza». «Lo stupefacente attacco iraniano a Israele ha trasformato un criminale di guerra che era sull’orlo del fallimento e del collasso in un eroe nazionale, che si fa carico di proteggere il suo mite Paese dalla minaccia iraniana», prosegue Rabahi. Secondo quest’ultimo, l’Iran avrebbe dovuto continuare a prendere di mira Israele per procura, attraverso l’azione delle sue milizie sparse nei vari Paesi della regione. Questo è il metodo più funzionale, scrive, perché «avvantaggia l’Iran, danneggia Israele, infastidisce l’America più dell’azione militare diretta, e non nuoce a Gaza».

 

La galassia salafita-islamista-jihadista piange Abdul Majid al-Zindani 

 

Alcuni quotidiani hanno ricordato lo shaykh yemenita Abdul Majid al-Zindani, morto lunedì scorso in Turchia, Paese in cui viveva dal 2020. I funerali si sono tenuti ieri a Istanbul alla presenza del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che ha guidato le esequie. Personalità molto controversa, al-Zindani è il fondatore del partito islamista yemenita Islah, oltreché un grande fautore dell’esegesi scientifica del Corano, la corrente che interpreta il libro sacro dell’islam alla luce della scienza (clicca qui per saperne di più). Durante la guerra contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, è stato inoltre uno dei mentori di Osama bin Laden e nel 2004 gli Stati Uniti l’hanno incluso nella loro lista dei ricercati per terrorismo, un’accusa che lui ha sempre negato.

 

Al-Jazeera lo ha definito «un sapiente, una stella, un dono, un pioniere» e lo ha celebrato ripercorrendo le tappe principali della sua vita intellettuale: fu uno studente di Sharia in Egitto ad al-Azhar, poi in Arabia Saudita e in Sudan, fondò la “Commissione dell’inimitabilità scientifica nel Corano e nella Sunna” a Mecca e l’Università Iman in Yemen. Al-Zindani, scrive l’amico e collaboratore Wasfi Ashour Abu Zaid, è stato un grande sostenitore del jihad afghano, della Primavera araba in Yemen nel 2011, di Hamas e della causa palestinese, e autore di una fatwa molto controversa che rendeva leciti per i musulmani in Occidente il «matrimonio tra amici», ovvero i rapporti sessuali prematrimoniali.

 

Sul fronte opposto, il sito della la tv satellitare saudita al-‘Arabiya, notoriamente anti-islamista, ne ha invece messo in luce gli aspetti più controversi, distaccandosi nettamente dai toni celebrativi della filo-islamista al-Jazeera. In poche righe ha definito al-Zindani «una delle personalità più importanti del periodo del risveglio islamico saudita (sahwa)», «padre spirituale» di Bin Laden ricercato dagli Stati Uniti, sostenitore del jihad in Afghanistan e reclutatore di combattenti arabi.

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