Il Sahel offre terreno fertile per la nascita di gruppi diversi di jihadisti, che grazie alla povertà diffusa e a confini porosi, facilmente reclutano combattenti

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:20

Il Sahel offre terreno fertile per la nascita di gruppi diversi di jihadisti, che grazie alla povertà diffusa e a confini porosi, facilmente reclutano combattenti. Ma emergono anche nuovi predicatori e movimenti musulmani che, tra collusioni con i terroristi e ideali democratici, determinano il futuro di questa regione.

La regione africana del Sahel è teatro dal 2003 di una significativa attività jihadista. Nel frattempo nuove voci musulmane, per lo più non violente, chiedono più spazio in campo politico. Alcune di queste voci appartengono a “islamisti” che si propongono di costruire degli Stati islamici, ma la maggioranza è costituita da attivisti musulmani che sperano di definire ed estendere lo spazio dei valori islamici nella vita pubblica.

I governi e le società del Sahel si trovano a dover rispondere a questi nuovi ampi movimenti islamici che cercano di “mediare il cambiamento sociale”[1] e, nello stesso tempo, a operare una distinzione tra questi movimenti e la frangia dei jihadisti violenti. Tra urbanizzazione e questioni nazionali irrisolte, nel Sahel la politica legata all’identità islamica sta diventando sempre più urgente e complessa.

I gruppi jihadisti nel Sahel comprendono sia movimenti autoctoni che organizzazioni che hanno esteso la propria influenza oltre il Nord Africa, ma le linee di demarcazione tra gli outsider e gli insider sono sfumate. Nata in Algeria, al-Qa’ida nel Maghreb islamico (AQMI) si è rivolta al Sahara dopo che le atrocità commesse negli anni ’90 durante la guerra civile algerina le avevano alienato la popolazione civile, e dopo essersi ritrovata ai margini delle amnistie e degli accordi politici che alla guerra civile hanno (quasi) messo fine nei primi anni 2000. AQMI ha operato per radicarsi nelle società del Sahara attraverso la predicazione, le relazioni commerciali e i matrimoni, e prendendo sul serio le rimostranze delle popolazioni locali, come quelle degli irredentisti Tuareg del Mali.

Il confine tra combattenti stranieri (foreign fighters) e militanti locali è sfumato, anche perché i jihadisti attraversano le frontiere con facilità. Lo dimostra il caso di Hamada Ould Khairou, mauritano nato intorno al 1970. Tra il 2005 e il 2006 Khairou è stato in prigione in Mauritania per diversi mesi, dopo essere rimasto coinvolto in un scontro violento presso una moschea. Fuggito in Mali, ha combattuto a fianco del leader di AQMI, Mokhtar Belmokhtar, prima che le autorità maliane lo arrestassero nel 2009. A quanto pare, Khairou è stato rilasciato nel 2010 nel quadro di uno scambio di prigionieri per la liberazione di un ostaggio francese ed è riapparso sulla scena nel 2011 come fondatore di un ramo di AQMI noto come Movimento per l’Unità e il Jihad in Africa occidentale (MUJWA), uno dei gruppi dominanti nel Mali settentrionale durante la crisi del 2012-2013. Queste carriere contrastate e transnazionali sono comuni tra i leader jihadisti nel Sahel.

Rapimenti, occupazioni, raid Nel Sahel il jihadismo ha assunto tre forme principali, ciascuna delle quali trae profitto dai confini porosi, dall’incapacità dello Stato e dalla corruzione. In primo luogo i gruppi jihadisti, specialmente AQMI, hanno messo in piedi una redditizia economia dei sequestri. Secondo un’indagine condotta dal New York Times, tra il 2003 e il 2014 i governi europei hanno pagato ad AQMI almeno 91,5 milioni di dollari per il rilascio di ostaggi europei[2]. Diverscontinua a leggere

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Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Alex Thurston, Le fortune altalenanti del jihad nel Sahel, «Oasis», anno X, n. 20, dicembre 2014, pp. 46-50.

 

Riferimento al formato digitale:

Alex Thurston, Le fortune altalenanti del jihad nel Sahel, «Oasis» [online], pubblicato il 28 gennaio 2015, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/le-fortune-altalenanti-del-jihad-nel-sahel.

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