La sfida della Bosnia all'Unione Europea

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:18

L’Unione europea, che  accetta nel suo seno solo paesi democratici ed esercita grande attrazione sui vicini, è sfidata da Paesi come la Bosnia: la costringono infatti a chiedersi se i diritti siano un “lusso” di ordinamenti che sono già in pace oppure se siano anche gli strumenti per ottenerla.

Dopo essere stati teatro negli anni ’90 di numerosi conflitti a sfondo etnico-religioso, i Balcani si stanno progressivamente integrando al resto del continente: proprio per questo, la “questione balcanica” e la creazione di un quadro istituzionale capace di ospitare una realtà religiosamente plurale, segnata dalla presenza di comunità ortodosse, cattoliche e musulmane, sta diventando un affare sempre più giuridico per le istituzioni europee. Slovenia e Croazia sono già nell’Unione europea, altre parti dell’ex Jugoslavia stanno affrontando il processo di avvicinamento, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo ha visto l’adesione degli interi Balcani, e la Commissione di Venezia, strumento di promozione della democrazia attraverso il diritto, ha contribuito al rinnovamento istituzionale praticamente di tutti gli ordinamenti interessati. Se dunque i Balcani sono largamente europei per cultura e geografia, lo stanno lentamente divenendo quanto a integrazione giuridica. Tuttavia, i destini delle istituzioni pan-continentali e quelli dei Balcani s’incrociano in un momento particolarmente delicato.

 

L’attrazione europea

L’Europa moderna è sicuramente un successo. Lo è sotto un profilo giuridico e politico. La creazione di uno spazio di pace, prosperità, libertà e sicurezza con pochi precedenti è proprio la ragione dell’attrattiva che l’integrazione europea suscita su tanti Paesi, inclusi quelli balcanici.

Bastino pochi elementi per rammentare il fenomeno dell’Unione europea: Paesi in conflitto da secoli, rispettivamente vittoriosi e perdenti alla fine della seconda guerra mondiale, hanno messo volontariamente in comune il mercato, carbone ed acciaio, e la ricerca sull’energia atomica. Se vogliamo tradurne il significato politico, dobbiamo osservare che d’un tratto tali Paesi hanno estirpato le ragioni del conflitto, le risorse per condurlo e gli strumenti di distruzione più letali, individuando delle istituzioni capaci di offrire un quadro di riferimento sovranazionale, unitario e condiviso, a questi ambiti. In termini ancor più generali, possiamo affermare che, per evitare nuove guerre, diversi paesi europei hanno scelto di non vivere esistenze separate, ma di cooperare.

Benessere e prosperità erano una ragione più che sufficiente per ricominciare, dopo il conflitto che aveva dissanguato il Continente; la cooperazione sovranazionale era invece un’intuizione cruciale, necessaria dopo le derive nazionalistiche. Complessivamente, il risultato è consistito in un continente pacificato, nel quale si sono collocate le premesse per delle vite democratiche stabili.

Un ultimo punto assolutamente degno di nota è il carattere di quest’iniziativa: per il suo successo, si è affidata alla volontà di ciascuno dei suoi membri. L’Unione europea si è sviluppata, nelle sue varie fasi, puntando interamente sulla volontà degli operatori giuridici nazionali di dare attuazione alle scelte effettuate in sede europea. Le istituzioni europee sono state infatti prima strutturalmente, e poi largamente, incapaci di portare ad esecuzione le proprie decisioni; e per la verità non hanno mai avuto la legittimazione democratica necessaria a giustificare poteri coercitivi paragonabili a quelli statali[1]. Gli stati vi si sono – quasi miracolosamente – adeguati, piuttosto di buon grado.

Se pace, progresso e prosperità sono stati consegnati al processo d’integrazione dell’Unione, altra questione riguarda il rispetto dei diritti umani e delle garanzie democratiche assicurati da ciascun Paese europeo[2]. Questo profilo è stato vigilato dalle istituzioni del Consiglio d’Europa, un organismo separato, che ormai conta nel suo seno quasi cinquanta Stati (venti oltre quelli dell’Unione) e che trova la sua ossatura nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tuttavia, l’Unione europea ha comunque costantemente richiesto agli stati entranti di aderire a standard di democrazia e diritti, quale precondizione per l’ingresso nell’Unione[3]. Questo, sia perché Stati democratici sono normalmente Stati stabili e con prospettive di crescita realistica, sia perché è diventato culturalmente inaccettabile legarsi a Paesi insoddisfacenti quanto a standard di politica e diritti. Infatti, i governi di quegli Stati, una volta avvenuto l’ingresso nell’Unione, si siedono a fianco dei loro partner per decidere le politiche dell’Unione.

Il club dei Paesi europei ha dunque complessivamente preso i caratteri di un ambiente inclusivo, democratico, rispettoso dei diritti umani e prospero. Un ambiente – come alcuni hanno efficacemente notato – scaturito all’inizio dall’intuizione di figure mosse da ideali profondamente immersi nella cultura cristiana, capace di trasformare buona parte di un continente in macerie, che aveva sperimentato ogni genere di conflitto, in una “forza civile”[4].

Dal successo al declino? Questi processi tanto fortunati hanno mostrato alcuni segnali di arresto, anche con riferimento ai Balcani. Le ragioni sono sia strutturali che esterne. Voglio segnalarne alcune, che riguardano rispettivamente l’Unione europea da un lato, e il Consiglio d’Europa e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo dall’altro, nella convinzione che questo spieghi almeno parte della disaffezione europea per tali strumenti. Quanto all’Unione europea, le prospecontinua a leggere

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Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Andrea Pin, I Balcani: Colonne d’Ercole della cultura democratica?, «Oasis», anno X, n. 20, dicembre 2014, pp. 97-100.

 

Riferimento al formato digitale:

Andrea Pin, I Balcani: Colonne d’Ercole della cultura democratica?, «Oasis» [online], pubblicato il 28 gennaio 2015, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/i-balcani-colonne-dercole-della-cultura-democratica.

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